Presentazione

Mi chiamo Marco Montanari e, come se il mio cognome fosse un presagio, la montagna è da sempre la mia passione.
Abito sull'Appennino, tra la Toscana e la Romagna, là dove nascono i più importanti fiumi del centro Italia, l'Arno e il Tevere. La storia di queste montagne è una storia di fatica, di sudore, di dolore, ma anche di poesia, di miti, di leggende...
Di questo voglio parlare in questo blog... delle mie montagne e di tutto ciò che la realtà e la fantasia di queste montagne mi ha sempre ispirato...

venerdì 20 luglio 2012

Una lunga fama di cannibali in Romagna

Facciamo un veloce tuffo nella storia e scomodiamo brevemente un grande autore del passato. Siamo nella prima metà del VI secolo d.C. e gran parte dell’Italia è sconvolta da una feroce guerra, quella che i libri di storia chiamano greco-gotica.

Due eserciti e due mentalità diverse si fronteggiano: da una parte i raffinatissimi bizantini, dall’altra gli Ostrogoti che avevano fissato la capitale del loro regno a Ravenna. I fatti militari di questa lunga campagna militare durata quasi venti anni, sono arrivati a noi soprattutto grazie agli scritti di Procopio, uno storico bizantino nato a Cesarea, che aveva seguito di persona tutti gli intrecci militari perché rivestiva l’importante carica di consigliere del generale Belisario, il grande stratega che conduceva le operazioni militari per conto dell’imperatore Giustiniano. Anche lui, dunque, si trovava in Italia. Procopio ci ha raccontato questa guerra con una grande perizia, non tralasciando fortunatamente anche tutti quei fatterelli e quelle sottigliezze che rendono benissimo l’atmosfera di quei tempi.
Ogni guerra, si sa, porta con sé povertà e carestie. E, ovviamente, la regina della guerra è la fame, che colpisce soprattutto le fasce più deboli. Vero o non vero che sia, nei momenti di fame si può mangiare qualunque cosa, compresa la carne umana. E proprio a proposito di un banchetto di carne umana che il nostro storico greco racconta un episodio accaduto in un villaggio nei pressi di Rimini.

Le due perfide albergatrici
L’anno è il 539 e la guerra si trascina impietosa ormai da quattro anni. Alle orecchie del nostro cronista giunse la notizia che in quel villaggio vicino a Rimini, di cui non si conosce il nome, solo due donne erano rimaste in vita e si erano trasformate in due albergatrici, ospitando i viandanti che si trovavano a viaggiare da quelle parti.
Ma la dimora non era certo la più sicura: le due infatti avevano ucciso ben 17 uomini. E lo avevano fatto in maniera agghiacciante. Ammazzati durante il sonno e quindi mangiati, possiamo pensare dopo una spartana macellazione. Fino a che, uno degli ospiti, quello che sarebbe diventato il diciottesimo pasto e forse quello con il sonno più leggero degli altri, non si svegliò proprio nell’attimo in cui le due stavano per ucciderlo. Ci volle a capire ciò che stava accadendo nella stanza e ci volle ancor meno, che neppure l’ospite doveva andare tanto per il sottile, trapassare le due megere con la spada.

Leggende cannibali, storie denigratorie
Leggenda? Probabilmente. Forse una di quelle voci che vogliono denunciare una situazione difficile e che persistono oralmente fino a quando non vengono registrate dalla penna di un cronista, rimanendo per sempre impigliate nella storia.
Ci si è chiesto quale potesse essere questo villaggio. Nessuno ha la risposta, perché forse non esiste nessuna risposta. Però è stato trovato uno strascico di questa storia in tempi più recenti, che con l’episodio di Procopio ha due agganci: il cannibalismo e la guerra. Racconta un noto studioso di folclore romagnolo che subito dopo la seconda guerra mondiale iniziò a circolare una macabra voce che vedeva come protagonisti alcuni abitanti di San Giovanni in Marignano. Costoro avrebbero infatti mangiato un soldato tedesco acciuffato mentre si stava ritirando. Niente di provato ed anzi, c’è proprio da pensare che sia una bella bufala. Magari messa in giro dai paesi vicini con meri scopi campanilistici.

La leggenda dei ‘mangiatedeschi’
Anche perché gli abitanti erano stati coinvolti in un altro fatto del genere circa un secolo prima. La storia si trova in un volume di vicende  marignanesi pubblicato più di trenta anni fa.
La storia è nota come ‘la leggenda dei mangiatedeschi’. Il 22 giugno del 1859, dopo il plebiscito che portò l’annessione della Romagna al Regno di Sardegna, si sparse la voce in paese della presenza di un soldato austriaco disertore, portato poi alla forza dell’ordine e rinchiuso nell’abitazione del sergente Alfonso Bacchini detto “Milòn”.
Ma l’ospite cercò di fuggire e l’indomani mattina, i papalini maliziosi fecero circolare la notizia che il soldato era stato ucciso, squartato e venduto alla locale macelleria. Quella carne sarebbe poi finita sulla tavola di numerosi marignanesi.
Della leggenda circola poi un’altra versione. Protagonista sempre un soldato austriaco, sorpreso questa volta a molestare una ragazza. Venne sorpreso dai fratelli di lei che non ci pensarono due volte a sbattere nel forno il delinquente in divisa. E non mancarono i soliti marignanesi che, ma questa volta per spregio, banchettarono con quelle carni ben cotte. In ogni caso, buon appetito!

giovedì 19 luglio 2012

Anche in Romagna si combatteva contro i draghi...la leggenda di San Ruffillo

Nel V secolo, l’abitato di Forlimpopoli era minacciato da un essere mostruoso: un vero e proprio drago che seminava il panico tra le persone. Ma per fortuna, in quel periodo, un eroico religioso si fece carico della questione. Almeno così narra la leggenda.

Il drago nella tradizione cristiana
La tradizione cristiana è ricca di draghi ed esseri affini. Pensiamo a San Giorgio - forse l’esempio più famoso - che, giovane soldato sfidò, vincendolo, il potente drago che abitava in un grande stagno vicino alla città di Selem, in Libia: un animale che con il proprio fiato era capace di uccidere chiunque. Ma perché questa presenza tanto costante? Perché il drago ha sempre rappresentato il male, la materializzazione del diavolo, la crudeltà che riesce a nuocere ai buoni cristiani. Isidoro di Siviglia, protoenciclopedista vissuto tra VI e VII d.C. scrisse: “è il piú grande di tutti gli animali; è una bestia sotterranea ed aerea che ama lasciare le caverne in cui si nasconde per volare nell’aria; la sua forza risiede non nella bocca o nei denti ma nella coda con cui può stritolare il suo avversario”.
Se si leggeva una cosa del genere, come riuscire a non avere paura di qualcosa di sconosciuto?

San Ruffillo. Un santo di cui si sa ben poco.
Le fonti storiche e agiografiche che parlano di questo santo sono molto scarne, povere e molto più tarde rispetto al periodo in cui egli fu in vita. Per tradizione lo si considera il primo vescovo di Forlimpopoli e l’unica notizia sicura è che ebbe un discreto culto, tanto che le fonti medievali documentano in regione ben tredici chiese a lui dedicate. La sua vita viene collocata nel V secolo e a lui è consacrata ovviamente la basilica della cittadina romagnola, nota con il nome di Collegiata di San Ruffillo. Costui si distinse nella lotta all’eresia ariana che aveva il proprio centro propulsore a Rimini e in quella all’idolatria pagana, di cui il drago può essere visto come un simbolo. In questa sua battaglia venne aiutato da altri santi molto noti in regione, come Leo del Montefeltro, Gaudenzio di Rimini e Geminiano di Modena. Secondo alcune fonti morì novantenne nella stessa Forlimpopoli; le sue spoglie vennero trasportate nel 1362 nella chiesa di San Giacomo in Strada di Forlì e solamente nel 1964 riportate nella Collegiata.

La leggenda del drago
Tra le poche cose note, dunque, di questo personaggio, c’è la leggenda del drago. Un sermone datato all’XI secolo ci racconta quindi come in quel tempo la bestiaccia insidiosa vivesse nelle campagne tra la cittadina e Forlì. Aveva un fiato talmente mostruoso (ricordate che il classico drago sputa fuoco?) che riusciva ad ammorbare così tanto l’aria da uccidere chi si trovasse nelle sue vicinanze. Occorreva dunque fare qualcosa e quel qualcosa lo fece Ruffillo. Esortò i fedeli a digiunare e a pregare e poi chiamò il suo ‘collega’ forlivese, San Mercuriale. Entrambi si recarono alla tana del drago e coraggiosamente strinsero le loro stole intorno alla gola del malefico essere. E chissà quanta forza ci volle per trascinarlo fino al profondo pozzo dove lo rinchiusero, sigillando l’apertura con un “memoriale”, probabilmente una lastra di pietra incisa. Liberando finalmente la zona e facendo dormire sonni tranquilli a tutti i forlimpopolesi.

mercoledì 18 luglio 2012

Misteri alla Spinella

Questa storia mi e' stata raccontata da un mio amico di Cesena, che qualche estate fa ando' in un rifugio che si chiama Spinella, nei pressi di San Sepolcro, con un gruppo parrocchiale di cui era educatore.
Avevano diviso i ragazzi in gruppi di 5-6 persone e li avevano mandati a fare una passeggiata di un giorno.
Uno di questi gruppetti ritorno' molto prima del previsto, terrorizzato e raccontando alcuni strani avvenimenti.

Il cammino
Mentre camminavano su una stradina di montagna, 2 ragazze si erano attardate per dissetarsi e sistemare qualcosa nello zaino, mentre i 3 ragazzi erano andati avanti.
La strada era facile da percorrere, ma faticosa perche' in costante salita e procedeva a zig zag circondata da pascoli e macchie di boschetti. Uno dei tre ragazzi teneva la cartina perche' era il piu' esperto ed erano d'accordo che ad ogni bivio avrebbe segnato una freccia sul terreno perche' nessuno si perdesse.

Capriole in salita
A un certo punto, i tre ragazzi davanti ebbero la sensazione di essere osservati e videro su un pascolo in lontananza uno strano animale che faceva delle capriole in salita.
I tre aguzzarono la vista per capire di che animale si trattava, ma dopo poco questi spari' alla loro vista. Supponendo si fosse rifugiato in una tana, continuarono a camminare.

Incontri
Poco piu' tardi le due ragazze sentirono dei passi dietro di loro. Girandosi, videro il ragazzo con la cartina che si avvicinava sorridendo a loro.
L'aspettarono e gli domandarono come mai fosse tornato indietro, ma lui si limito' a sorridere e a scuotere la testa.
Pochi minuti dopo le due ragazze e il ragazzo giunsero ad un bivio ed trovarono segnata per terra la solita freccia segnalatrice.
Stupite, le due femmine si voltarono verso il ragazzo, ma questi era scomparso.
A quel punto sentirono un rumore strano, come una specie di risata e, voltandosi, videro uno strano animale che faceva delle capriole in salita.

La paura
Le due ragazze si spaventarono e, ignorando la fatica e la salita, cominciarono a correre per cercare di raggiungere i ragazzi davanti a loro.
Dopo una curva incontrarono i ragazzi che camminavano insieme, i quali le accolsero deridendole e domandando loro perche' avessero preso una scorciatoia se non erano sicure della strada e poi erano tornate indietro.
Le due ragazze si guardarono perplesse, al che i ragazzi dissero loro che avevano visto due ragazze avanti a loro sulla strada e pensavano fossero loro.
A quel punto le ragazze raccontarono quello che era capitato loro e i cinque rimasero interdetti, guarandosi tra loro spaventati e senza parole.
Fu a quel punto che sentirono in lontananza due specie di risate e videro, in un pascolo, due strani animali che facevano capriole in salita.

Conclusione
Verita' o solo la fervida immaginazione di un gruppo di adolescenti? O forse i ragazzi cercavano solo una scusa per camminare di meno?
Non saprei, ma non e' questo lo scopo del mio blog. Non voglio indagare sulla verita', ma solo affiscinarvi con i mille racconti misteriosi che si narrano sulle nostre montagne.
Se pensavate che i misteri appartenessero solo al passato, eccovi serviti con una storia assolutamente recente.

martedì 17 luglio 2012

La Gradara di Paolo e Francesca

Tra le rocche più famose e visitate del nostro territorio, occorre sicuramente inserire quella di Gradara, che sovrasta il piccolo paese (poco più di quattromila abitanti) situato al confine tra Marche, regione alla quale appartiene, e Romagna. E come ogni brava rocca medievale, anche questa ha le sue leggende, una delle quali è contesa con altri manieri locali, quella di Paolo e Francesca.

La leggenda contesa
Qua si entra in una delle più grandi leggende di Romagna. Contesa da molti altri castelli, da altre rocche.Ognuno, sembra,vuole ambientare questa tragedia a casa propria. Perché è uno di quegli eventi storici che nobilita e, mi permetto, che porta turisti.Diciamo che, se questa fosse una gara, a vincere sarebbe Gradara. Non entriamo nei meandri della storia, non lavoriamo di cesello sulle fonti. Questo paese, non so perché, forse per un piano marketing migliore, è quello che offre meglio di altri i muri all’episodio.

Paolo e Francesca L’amore che porta alla morte
Per bene, dall’inizio. C’era, e siamo alla fine del Duecento, un signore potente, brutto e sciancato, che di nome faceva Giovanni Malatesta e di soprannome Gianciotto. Costui aveva sposato una ragazza della nobiltà ravennate.
Molto graziosa, come viene tramandato. E sempre costui aveva un fratello che, guarda il caso, era di bella presenza e più giovane. Presumiamo anche prestante. Bastano questi tre elementi per capire come andrà a finire? Certo, ma la storia va raccontata ugualmente.
Il problema è che Gianciotto, per impegni che oggi chiameremmo di lavoro, era costretto ad assentarsi frequentemente dalla moglie che abitava appunto a Gradara. E Paolo, invece, in altre cose affaccendato, costretto (si fa per dire) a frequentare invece quella dimora. Da cosa nasce cosa e dalla bellezza, si sa, è molto facile che nasca l’amore. E così quei comportamenti destarono molti sospetti e le voci arrivarono all’orecchio dello sciancato. Ci fu uno spione? Talvolta si tira in ballo Malatestino dall’Occhio, che era sì orbo, ma che a dirla con Dante era anche un “traditor che vede pur con l’uno”. Ma sorvoliamo, la verità non la conosciamo. Le voci comunque erano vere. Gianciotto li sorprese in atteggiamenti inequivocabili e sentendosi tradito (oppure per un moto d’orgoglio?) si avventò su Paolo con la spada sguainata. Ma Francesca gli si parò davanti, in un ultimo gesto d’amore che portò entrambi all’eternità.

Una grande tragedia sentimentale
Vera o inventata che sia, questa tragedia che si consumò spietata fece fiorire una ricchissima messe di racconti ed ebbe anche una felice fortuna letteraria.
Dante mise i due amanti nel V canto dell’Inferno, quello dei lussuriosi, e dedica a loro delle terzine  così poetiche e dense d’amore da far piangere il cuore.
Li pone nell’Inferno, è vero, ma li lascia pur sempre insieme, creando una delle parti tra le più conosciute ed imparate di tutta la Divina. E poi ci fu D’Annunzio, con la sua Francesca da Rimini del 1902 e il successivo libretto d’opera di Zandonai. E poi i quadri e le sculture che ritraggono i due celebri personaggi. Ah, il potere dell’amore!

I due corpi dove finirono?
Cosa dice ancora la leggenda? Nulla di più, se non quello che si legge sulle guide propinate ai turisti, e che riporto. Uno storico locale narra che nel 1760, in occasione di alcuni lavori di sterro intorno alla rocca, rinvennero un sarcofago di epoca romana. Chi c’era però dentro? Una dama, ovviamente non di quell’epoca, con gioielli e resti di una vestito di seta. Nell’immaginario comune si pensò subito a Francesca. Che il truce Gianciotto, pur di nascondere al più presto il corpo, abbia utilizzato la prima cosa rimediata per seppellirla? Perché no.
Poi è la volta di Paolo. Allorché, sempre in secoli passati, si ritrovò nel fondo di un mastio (così si narra) uno scheletro completo con ancora indosso l’armatura. Ovviamente si pensò a lui. Ma andava a trovare l’amante con l’armatura? Vada per il sesso sicuro.

lunedì 16 luglio 2012

Cagliostro e la fama di San Leo

San Leo è davvero una cittadina conosciuta. Questo certamente grazie alla sua suggestiva posizione, agli edifici che conserva, alla sua importante storia. Ma soprattutto San Leo è famosa perché lì è morto Cagliostro. Il mitico Cagliostro di cui tutti parlano e di cui tutti sanno indicare la cella dove è stato rinchiuso, dentro la massiccia fortezza leontina. Cagliostro è così famoso ed affascinante che lo si conosce molto di più dei veri personaggi importanti. Ma lo si conosce come un qualcuno che ha fatto un qualcosa di misterioso, perché se si chiede chi fosse in realtà, in pochi sanno rispondere

Cagliostro
Giuseppe Balsamo nacque a Palermo nel 1743, figlio di un modestissimo commerciante, che morì poco dopo lasciando la famiglia con grossi problemi economici.
Fin da ragazzino, Giuseppe dimostrò un animo ribelle e, dopo diverse fughe dai collegi in cui venne rinchiuso, la famiglia lo costrinse a ritirarsi in un convento di Caltagirone, per piegarlo alla disciplina. Qui si interessa all’arte medica e qui, per la prima volta, fa la conoscenza con la disciplina erboristica e la chimica.

Prime truffe e i primi viaggi
Abbandonato il convento, iniziano i suoi rapporti con il mondo.Le prime piccole truffe, gli spostamenti per sfuggire alla giustizia, forse alcuni viaggi (come lui stesso scriverà) al seguito di un fantomatico greco di nome Altotas, da lui definito un primo maestro.
Poi andò a Roma, dove si sposerà con una ragazza bella e conturbante di nome Lorenza. E iniziò a dedicarsi all’attività di falsario, che li porterà entrambi ad essere arrestati. Da questo momento la loro vita sarà segnata da numerosi viaggi, pagati spesso con la prostituzione di Lorenza e con i favori di facoltosi e influenti personaggi che, oltre ad apprezzare le grazie della moglie, subivano anche il magnetico carisma di Giuseppe. Girò vorticosamente in Francia, Spagna, Portogallo, Inghilterra (a Londra finisce in prigione, sempre per truffa), Germania e Malta.

Il guaritore e l’alchimista
Ed è proprio a Londra, dove si era guadagnato oltre che la fama del ciarlatano, anche quella dell’uomo dotato di poteri speciali, che Balsamo o, come si faceva chiamare allora, il conte di Cagliostro, si avvicinò alla massoneria, entrando dapprima in una loggia inglese e successivamente in una olandese.
Siamo nel 1777. Da quel momento iniziarono nuovi viaggi e questa volta la meta prediletta fu l’Europa dell’Est, dove si costruì la controversa nomea di taumaturgo e di alchimista, e dove veniva regolarmente ospitato da nobili e potenti, convinti che quell’uomo conoscesse veramente i segreti reconditi della natura. E sebbene non fosse dotato di cultura e riuscisse spesso  a trovarsi in situazioni di pessimo gusto, il suo nome era sulla bocca di tutti come colui in grado di sanare ogni genere di problema.

Il rito egizio
Nel 1784, durante un soggiorno in Francia, il conte di Cagliostro si ammalò.E, come lui stesso dirà in seguito all’inquisitore, durante la malattia ebbe la visione che lo portò a fondare la nuova loggia massonica, introducendo il Rito Egizio.
Si elesse Gran Cofto e nominò Lorenza, che ormai è per tutti la principessa Serafina, Grande Maestra. Raccolse molti adepti, attirati dalla propaganda di Cagliostro che presentava il Rito come la rigenerazione fisica e spirituale dell’umanità, un ritorno alla condizione precedente il peccato originale. Una rigenerazione che si poteva ottenere solo grazie a lui, unico depositario di un mistero mai svelato, e dei Dodici Maestri della Loggia.
Un programma ambizioso che, nelle intenzioni dell’autore, avrebbe avuto il suo culmine nel riconoscimento da parte della Chiesa Cattolica, che invece avversava questo genere di sette. La Chiesa e per il popolo facilmente impressionabile. Sono infatti gli anni dell’arrivo dei Francesi, dipinti dai religiosi come dei veri diavoli e anticristi. Era da loro che occorreva difendersi e affidarsi a Dio e così, poteva accadere, che si soffiasse sul fuoco per aumentare il numero di questi prodigi.
L’evento accaduto a Sant’Agata Feltria è un ottimo esempio. Una fredda mattina del 6 febbraio 1797 alcune persone stavano pregando nella Collegiata, davanti all’immagine della Vergine del Rosario quando ad un certo momento videro muovere le pupille.
Non era una semplice suggestione, perché la Vergine continuava il movimento degli occhi e così esplose la meraviglia e raccontarono il fatto. Ovviamente si raggruppò un gran numero di persone e si controllò se poteva esserci qualche inganno o artificio, senza però trovare nulla. Ma evidentemente c’erano anche gli scettici e soprattutto c’erano quelli di mente più aperta che sapevano dove si voleva arrivare. E allora la Curia fece fare un regolare processo per riconoscere il miracolo e questo, per fortuna, andò a buon fine. E si chiamò anche una commissione ecclesiastica per essere ancora più scrupolosi. Il miracolo era realmente avvenuto, per buona pace di tutti.

Il declino
Sembrava ora che tutto andasse per il meglio. Ma un evento traumatico segnò definitivamente il declino di Cagliostro. Venne infatti coinvolto in una grossa truffa, nota come lo ‘scandalo della collana’, che vedeva come protagonisti importanti esponenti della casa reale francese, tra cui la regina Maria Antonietta.
L’epilogo fu la prigionia, insieme alla moglie, alla Bastiglia dalla quale uscì poco dopo. Ma intanto, intorno a lui, si stava creando il vuoto, e questo anche grazie all’opera di alcuni articoli usciti sui più letti giornali dell’epoca, in cui si chiariva chi realmente fosse Cagliostro, un mistificatore tutt’altro che nobile, notissimo truffatore e abituale frequentatore di carceri.
Anche Lorenza gli si mise contro, piuttosto per interesse che per principio, denunciandolo più volte.  E venne anche segnalato alla polizia pontificia da due spie introdotte nella sua Loggia. Tutto sembra precipitare velocemente e, siamo nel 1789, a seguito di altre denunce venne arrestato definitivamente.
Le accuse erano così gravi che se provate lo potrebbero portare alla pena di morte: magia, massoneria, blasfemia contro Dio, Cristo, la Madonna e i Santi, calunnia, truffa, sfruttamento della prostituzione e pubblicazione di scritti eretici. La stessa Lorenza, anche lei arrestata, testimoniò contro il marito.
Al quale non rimase che una strada: abiurare e ammettere che era stata tutta un finzione.

La condanna e gli ultimi anni di vitaLa condanna arrivò. Il Sant’Uffizio emise la sentenza nel 1791, riconoscendogli le accuse precedenti.
Mentre assolverà Lorenza, considerata una testimone chiave dell’intero processo. Ma non ci sarà pena di morte per Cagliostro, bensì il carcere a vita da scontare in qualche fortezza dello Stato Pontificio.
Venne scelta quella di San Leo, per la sicurezza e per quella sua estraneità dal mondo. Cagliostro fu dunque trasferito e la nuova destinazione fu una cella minuscola, detta ‘del Tesoro’, inaccessibile e completamente isolata. Da questa cella fu poi spostato in una ancora più angusta e segreta, il ‘pozzetto’, a seguito di alcuni voci su un certo piano organizzato per farlo fuggire, magari con l’utilizzo di palloni volanti. Ma non successe mai nulla.
E qui Cagliostro morì nel 1795, passando gli ultimi anni tra momenti di lucidità e follia, tra digiuni, minacce di suicidio e lunghi momenti di calma. Venne sepolto all’esterno della rocca, in un luogo senza indicazioni di cui si è persa memoria, come si conveniva a chi come lui aveva rifiutato ogni conforto religioso. Si dice che due anni dopo, quando i soldati polacchi espugnarono la fortezza e liberarono i prigionieri, disseppellirono anche il cadavere del mago. E per festeggiare la libertà ripresa, alcuni galeotti brindarono con i militari utilizzando il cranio di Cagliostro. Oggi, di quel corpo, non si sa più nulla.

domenica 15 luglio 2012

Gli spettri di Montefiore le ombre che si aggirano all’interno della Rocca

Malatesta Guastafamiglia
Quella di Montefiore è una delle rocche più imponenti del Riminese. Guardatela lassù, maestosa e alta, possente, a dominare l’ultimo tratto della valle del Conca, a confondersi con la nebbia invernale, diventando una sfumata ombra d’altura.
Capolavoro dell’architettura malatestiana, venne costruita nel Trecento, e successivamente trasformata ed adattata alle diverse esigenze. Si dice che la sua costruzione sia stata iniziata da Malatesta “Guastafamiglia”, il figlio di Pandolfo I Malatesta.
Il Guastafamiglia (soprannome ben  poco lusinghiero) viene descritto dagli storici come un ottimo militare, un capitano d’arme accorto e giudizioso e, come il ruolo politico imponeva, deciso a tutto per mantenere il potere. E deciso a tutto significa non farsi scrupoli nell’eliminare (fisicamente) eventuali nemici e oppositori. Non per quella cattiveria che si vuole imputare ai potenti, ma per un motivo molto più semplice: la “ragion di Stato”.

L'esecuzione di Lorenzo di Berardo
La letteratura, in proposito, ci tramanda una delle esecuzioni volute da questo signore, quella di Lorenzo di Berardo Coccolino.
Costui era un maggiorente della vicina comunità di Saludecio, il quale venne ritenuto colpevole dell’omicidio di due esponenti della famiglia Ondedei, aristocratici di quella zona. Probabilmente Lorenzo era veramente implicato in quegli eventi e una delle tesi in circolazione è questa: il mandante del duplice omicidio fu il Guastafamiglia e l’esecutore materiale il povero condannato, fatto poi decapitare dallo stesso Malatesta per eliminare uno scomodo testimone che avrebbe potuto ostacolare, parlando di questo omicidio, l’ascesa al potere dell’intera vallata.
C’è anche chi ha ipotizzato poi, che lo stesso imputato fosse della medesima famiglia Ondedei, ma allontanato dai ruoli di potere ed inviso ai due assassinati. E se avvaloriamo la tesi del Guastafamiglia mandante, non possiamo che inchinarci di fronte alla scelta di tale esecutore, che sicuramente aveva avuto un forte movente per compiere l’atto criminoso. Un piano ben congegnato dunque, dal quale il Malatesta uscì vincitore, mentre Lorenzo invece ci perse la testa sotto i colpi della mannaia del boia. Era un assolato agosto del 1344.

La mostra sulla stregoneria
Facciamo un passo in avanti. Nel 1993 nelle sale della rocca di Montefiore si tenne una mostra, molto visitata. L’argomento era accattivante, uno di quelli che da sempre attirano interesse: la stregoneria.
Il curatore della mostra, grande appassionato dell’occulto, raccontò in una intervista apparsa su un quotidiano dell’epoca, alcuni fatti inspiegabili che accaddero in quell’occasione. Ogni notte, asserì il personaggio, venuto il momento di chiudere la mostra, il pesante silenzio della rocca veniva interrotto da alcune voci e dall’agghiacciante rumore di passi, ma senza che vi fosse alcuna persona all’interno dell’edificio.
E oltre a ciò, avveniva anche uno strano fenomeno: nella sala sopra quella in cui era stata allestita la mostra, la temperatura sembrava impazzita, molto caldo se fuori era freddo e molto freddo se fuori era caldo. Dei fatti strani che lo indussero a chiamare uno dei maggiori esperti italiani del mondo occulto per chiedere un parere. Parere che arrivò, accompagnato da due apparizioni spettrali, quella di un uomo e quella di una donna.
Nel posto di guardia infatti si manifestò un uomo che si aggirava rabbioso e furente, un uomo che aveva una caratteristica che non si potè non notare: era decapitato e teneva la testa sotto il braccio. Le conseguenze sono evidenti.
Che sia stato il fantasma di Lorenzo di Berardo a vagare tra quelle mura? Una certa letteratura lo ha ipotizzato, anche se parimenti ha constatato che l’esecuzione non venne eseguita in quel luogo, ma sulla piazza pubblica di Rimini. Che Montefiore sia stata eletta dallo spettro come eterna dimora?

La seconda apparizione,una donna vestita di bianco
Abbiamo detto che il fantasma dell’uomo decapitato non è l’unico avvistato, o, al limite, non è l’unico di cui si è parlato. Oltre a questo infatti, c’è quello di una donna, una dama vestita di bianco.
Anche in questo caso, l’esigenza di dare all’apparizione un nome ed un cognome ha portato a formulare ipotesi e a chiudere il cerchio intorno a Costanza, figlia di Malatesta Ungaro, morta in circostanze delittuose.
La storia è questa. Alla morte di Guastafamiglia, Montefiore va ai suoi due figli, uno dei quali è appunto Ungaro, un uomo amato e passionale, anch’egli protagonista di una tragica storia d’amore, quella con Viola Novella, uccisa a coltellate dal marito Caccia Battagli e per la quale, nel 1358, Ungaro discese nel pozzo di San Patrizio (in Irlanda, luogo creduto la “porta del Purgatorio”) per parlare con la sua ombra... ma questa è un’altra storia. Costanza era la sua unica figlia legittima. Dopo l’infanzia passata alla corte di Pesaro, nel 1363 si sposò con il marchese Ugo d’Este, che seguì nella città di Ferrara.
   
Il ritorno di Costanza a Rimini
Ma dopo qualche anno, quando era poco più che ventenne, Costanza rimase vedova. Tornò a Rimini dove poté contare su una cospicua eredità lasciata dal padre. E iniziò la sua fama di donna capricciosa e dedita alle pulsioni del cuore e della carne.
Uno storico successivo scrisse che “si faceva lecito ogni capriccio poco onesto” e che un giorno, venne sorpresa ad amoreggiare (“trovata nel letto a giacere” dice sempre lo storico citato) con un uomo d’armi tedesco, un mercenario di nome Ormanno. Lo scandalo venne preso di cattivo petto dallo zio Galeotto, fratello del padre asceso al governo di Montefiore, che assoldò un sicario di nome Santolino da Faenza per ucciderli entrambi.
Ma Santolino era un uomo fedele più al sangue malatestiano che agli interessi della casata, e per questo si rifiutò di assassinare una donna di quella famiglia.
Si dovette quindi contare sull’azione di Furiuzzo di Forlì, che contrariamente al primo, eseguì senza remore gli ordini di Galeotto ponendo fine alle pulsioni della donna. Era il 1378 quando si compì il fatto di sangue, ma la storia è però controversa, perché il nome di Costanza compare ancora in un documento del 1384. Ma questo poco importa con leggenda, ed anzi, per certi aspetti ne aumenta il fascino. Sorge a questo punto una domanda? E’ veramente sua l’ombra che si è vista vagare disperata (e forse ancora vaga) nella rocca di Montefiore? Certe teorie recenti così vorrebbero.

Leggende e medioevo vanno spesso a braccetto
E sono proprio i castelli abitati ‘infestati’ a farla da padrone nell’immaginario collettivo, rappresentando un elemento comune a tutta la vecchia Europa. Anzi, si potrebbe dire, che un castello spesso non è considerato dalle grandi masse turistiche se tra le sue mura non si aggira qualcosa di inspiegabile che chissà quando è stato avvistato. Verità o allucinazioni?  Oppure vincenti strategie pubblicitarie? Chi si prende la responsabilità di rispondere si faccia avanti.

venerdì 13 luglio 2012

Il Capoluogo del Montefeltro misterioso: Sassocorvaro

Sicuramente, è più famosa la sua rocca della cittadina in sé. Ovvio, mi verrebbe da dire. Chi, dopo averla vista almeno una volta, può dimenticarla? Con quella forma così inusuale...

Una rocca a forma di tartaruga
La rocca di Sassocorvaro, così come la si vede oggi, venne edificata nel 1475. A disegnarla fu probabilmente uno degli architetti militari più ‘alla moda’ del tempo, Francesco di Giorgio Martini. A commissionarla, invece, Ottaviano degli Ubaldini che aveva ricevuto in signoria Sassocorvaro da Federico da Montefeltro, appena un anno prima.La forma con cui venne costruita è davvero inusuale. Se vista dall’alto, pare proprio una tartaruga, anche se mancano le zampe posteriori, e la testa è frutto di una successiva addizione settecentesca.

Forma e alchimia
Da ora in avanti si entra nella leggenda! Ottaviano era un amico fraterno e consigliere di Federico da Montefeltro, a cui era anche legato da legami di parentela. Un uomo di grandi capacità e di forte personalità, di vasta cultura filosofica e letteraria, e sul quale aleggiava anche la fama di essere un praticante delle arti magiche ed esoteriche.
A questa sua inclinazione viene accostata perciò la strana forma della rocca che si fece costruire come dimora. La tartaruga è infatti uno dei simboli per eccellenza dell’alchimia. Il suo essere compatto ed estremamente difeso, è il simbolo della pietra filosofale, di così difficile lavorazione, ed il procedere lento dell’animale è accostato ai tempi lunghissimi con cui l’alchimista porta a termine la propria opera. Come dire: Ottaviano decise di abitare completamente ‘immerso’ nella pratica alchemica che deditamente seguiva.

Quello strano fenomeno estivo
La rocca di Sassocorvaro sembra nascere dunque, secondo alcuni, sotto il segno del mistero e della magia. E, a rafforzare il tutto, non mancano ovviamente i racconti di spettri che si sono visti aggirare in quelle stanze e nelle sue vicinanze. E oltre a questi, ci sono anche altri fatti che sembrano proprio senza spiegazione.
Tra questi è bene citare un fenomeno, che a quanto pare, si ripete ogni estate. Questo è almeno quello che si riporta. Nella notte del 26 agosto, proprio sotto l’arco della porta di entrata, iniziano a prendere ‘forma’ delle voci confuse, dei bisbigli, dei respiri profondi. Che diventano ben presto grida laceranti, pianti disperati e terrorizzati. E terrorizzanti, direi io, almeno per chi si trova a sentirli.
Poi ecco che, da lontano, si ode un rumore, quello del crepitio di un incendio. Ed una fila di soldati e cavalieri emergere dal buio e ritornare alla rocca, mestamente. Un ritorno che, probabilmente, è obbligato da chissà quale maledizione. Qualcuno pensa esserci una relazione con la battaglia con cui i Montefeltro riuscirono a strappare la città ai Malatesta.

Alcune apparizioni
Ed anche, come si diceva, delle spettrali apparizioni. C’è chi assicura che sia possibile vedere, mentre vaga per le stanze, lo spirito di Corrado Cariati, morto qui dentro nel 1378. Era un parente dei Montefeltro e per questa colpa – politicamente, allora, non era certo una colpa da poco – venne fatto uccidere dai Malatesta. Proprio durante una festa in suo onore. E qui venne sepolto, ma, a quanto pare, non riuscì a trovare pace.
Ma c’è anche la leggenda della ragazza impazzita per l’amore negato. Negato dai parenti, si sa, come sempre accade. Che fecero trucidare crudelmente l’amante non accettato, costringendola ancora a materializzarsi piangente e disperata.
E c’è chi parla pure dello spettro di Cesare Borgia, avvistato in abiti ricchi e lussuosi e quello di Elisabetta Valentini, la moglie del conte Girolamo Oliva, uccisa accoltellata dal marito nel 1611 che l’aveva trovata in flagranza di adulterio.